INTERVISTE
La commedia stralunata con Adriano Tardiolo e Barbora Bobuľová, in sala dal 24 agosto, in anteprima venerdì 7 luglio al festival organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e promosso da Confindustria Lecco e Sondrio: “Una favola sulla voglia di libertà. Ci piace dirottare lo sguardo altrove”
Dopo le anteprime invernali ai festival di Torino, Tallinn e Trieste e in attesa dell’uscita in sala (da giovedì 24 agosto con la distribuzione di Tucker Film), La lunga corsa arriva al Lecco Film Fest (il festival organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e promosso da Confindustria Lecco e Sondrio, dal 5 al 9 luglio). Una commedia stralunata, dominata da un personaggio memorabile: Giacinto, nato in carcere perché figlio di detenuti e cresciuto lì dentro sotto l’ala paterna del capo dei secondini, che, raggiunti i 18 anni, sarebbe libero di volare via, se non fosse che del mondo fuori non conosce nulla.
La lunga corsa – che sarà proiettato venerdì 7 luglio alle ore 21 in Piazza Garibaldi a Lecco – sembra davvero accordarsi al tema della quarta edizione del Lecco Film Fest, che cita le parole di Papa Francesco: il cinema che, in “un mondo sempre più artificiale”, ha il compito di “ridestare lo stupore”. “È vero, in fondo è già tutto nello sguardo di Giacinto – spiega Andrea Magnani, che del film è regista, sceneggiatore e produttore – sempre stupito, rapito. E molto si deve al protagonista, Adriano Tardiolo, con quella sua aria sempre sulle nuvole.
Questo stupore nello sguardo era già nella sceneggiatura o si è accentuato grazie alla presenza di un attore così singolare?
È nato in fase di scrittura ed è sicuramente in continuità con il protagonista di Easy – Un viaggio facile facile (la pluripremiata opera prima di Magnani del 2017, ndr). Ma è stato Adriano a far quadrare il cerchio: non è un attore professionista, ha fatto Lazzaro felice, certo, Marco Müller l’ha chiamato per un’esperienza in Cina, ma resta un ragazzo come tanti, uno studente di economia che conserva quella purezza che serviva a Giacinto.
Giacinto come un fiore che sboccia nel cemento del carcere?
È come un bulbo che cresce con poca terra, nelle crepe. Il carcere è una metafora: è il ventre materno, la comfort zone per antonomasia. Uscire da quel posto è la prova di maturità: Giacinto esce, il portone si chiude, una nuova storia ha inizio.
Che trova fuori?
Tante difficoltà, tanti ostacoli. Io stesso, almeno fino ai venticinque anni, ho affrontato quelle paure che conosce anche Giacinto una volta uscito dal suo guscio. Qualcosa che mi sembra ancora più importante oggi, dopo la pandemia: anziché uscire, rincorrere sogni anche irrealizzabili, molti preferiscono chiudersi in un paesino, nella propria interiorità, come se il mondo finisse lì. Questa, invece, è una storia sulla voglia di libertà.
Libertà che si riflette anche nell’allargamento dei confini: è raro vedere una coproduzione (Pilgrim Film, Bartlebyfilm, Fresh Production Group con Rai Cinema) tra l’Italia e una nazione come l’Ucraina.
Abbiamo consolidato l’amicizia creata ai tempi di Easy, ma non volevamo trattare l’Ucraina in funzione drammaturgica. Abbiamo, piuttosto, colto l’occasione per metterci in gioco sul piano produttivo, costruire spazi non definiti né riconoscibili, dei non-luoghi che potessero restituire lo spirito della favola. Perché, per me, La lunga corsa è una favola. Anche il tempo doveva essere sfuggente, tant’è che i vecchi autobus convivono con i moderni segway. Devo ringraziare Iaroslav Pilunskyi, il direttore della fotografia ucraino, perché abbiamo trovato i cromatismi adatti.
Questo stupore nello sguardo era già nella sceneggiatura o si è accentuato grazie alla presenza di un attore così singolare?
È nato in fase di scrittura ed è sicuramente in continuità con il protagonista di Easy – Un viaggio facile facile (la pluripremiata opera prima di Magnani del 2017, ndr). Ma è stato Adriano a far quadrare il cerchio: non è un attore professionista, ha fatto Lazzaro felice, certo, Marco Müller l’ha chiamato per un’esperienza in Cina, ma resta un ragazzo come tanti, uno studente di economia che conserva quella purezza che serviva a Giacinto.
Giacinto come un fiore che sboccia nel cemento del carcere?
È come un bulbo che cresce con poca terra, nelle crepe. Il carcere è una metafora: è il ventre materno, la comfort zone per antonomasia. Uscire da quel posto è la prova di maturità: Giacinto esce, il portone si chiude, una nuova storia ha inizio.
Che trova fuori?
Tante difficoltà, tanti ostacoli. Io stesso, almeno fino ai venticinque anni, ho affrontato quelle paure che conosce anche Giacinto una volta uscito dal suo guscio. Qualcosa che mi sembra ancora più importante oggi, dopo la pandemia: anziché uscire, rincorrere sogni anche irrealizzabili, molti preferiscono chiudersi in un paesino, nella propria interiorità, come se il mondo finisse lì. Questa, invece, è una storia sulla voglia di libertà.
Libertà che si riflette anche nell’allargamento dei confini: è raro vedere una coproduzione (Pilgrim Film, Bartlebyfilm, Fresh Production Group con Rai Cinema) tra l’Italia e una nazione come l’Ucraina.
Abbiamo consolidato l’amicizia creata ai tempi di Easy, ma non volevamo trattare l’Ucraina in funzione drammaturgica. Abbiamo, piuttosto, colto l’occasione per metterci in gioco sul piano produttivo, costruire spazi non definiti né riconoscibili, dei non-luoghi che potessero restituire lo spirito della favola. Perché, per me, La lunga corsa è una favola. Anche il tempo doveva essere sfuggente, tant’è che i vecchi autobus convivono con i moderni segway. Devo ringraziare Iaroslav Pilunskyi, il direttore della fotografia ucraino, perché abbiamo trovato i cromatismi adatti.
Anche il cast sembra rifiutare i conformismi, da Giovanni Calcagno nel ruolo del padre putativo di Giacinto a Barbora Bobuľová come direttrice del carcere con benda da pirata.
Quella è stata una scelta quasi casuale. Lei era perplessa, poi è talmente brava e simpatica che ha accettato di buon grado. Tra l’altro il suo personaggio, figlia del direttore dell’istituto, è parallela a Giacinto: anche lei non conosce il mondo fuori. Abbiamo raccontato la sua pazzia attraverso il cambiamento cromatico dei costumi. Ma quella benda racconta di più.
Cioè?
Volevamo che i personaggi del carcere avessero una distorsione visiva, dalla giovane Rocky (Nina Naboka) all’occhialuto Don Aldo (Gianluca Gobbi). Hanno problemi agli occhi perché, essendo chiusi in quel posto, coltivano difetti di prospettiva, vedono il mondo attraverso un solo punto di vista. Quella benda rappresenta una distonia: il mondo visto da un occhio solo.