Il Lecco Film Fest, dalla sua prima edizione tre anni fa, è sempre stato un palco per le voci femminili, una tribuna in cui lo sguardo della donna è messo al centro: nei film, nel dibattito e nella costruzione dei discorsi intorno alla cultura. Domenica, ultimo giorno della terza edizione della kermesse lecchese, ha visto protagoniste 4 donne, 4 diverse professioniste, che hanno presentato ledifficoltà che le donne incontrano nel conciliare la vita privata e la vita lavorativa, soprattutto se chiamate a ricoprire ruoli dirigenziali e di gestione e responsabilità. «Al festival si è sempre dato tanto spazio per il talento femminile. Ma lungi dall’essere un luogo di sole rivendicazioni, il festivalsi è sempre posto come occasione di confronto, di scambio e di proposta. Come si favorisce – chiede Elisabetta Soglio, giornalista del Corriere della Sera e direttrice del Corriere delle Buone Notizie – l’entrata e la permanenza delle donne nelle aziende: un tema che tocca il lavoro, la scuola e la cultura…». «…e il mondo che prefiguriamo alle nostre bambine – aggiunge la sua prima interlocutrice, Anna Ascani, sottosegretaria al Ministero dello Sviluppo Economico -. Per muovere passi importanti nella costruzione di una visione di un mondo con pari opportunità per donne e uomini, abbiamo istituito il “fondo impresa donna”». Un fondo che non nasce con l’avvento del Covid, che però ha colpito le donne più di chiunque altro, arriva prima e trova forza nel Pnrr, che «ha aumentato quel fondo da 40 a 200 milioni. Oggi solo 1 impresa su 6 è guidata da donne – chiosa Ascani -, e attraverso quel fondo riduciamo il rischio di impresa per le nuove aziende aperte da donne, ma premiamo anche la progettualità a lungo termine delle aziende già costituite che promuovono la parità di genere».
Il fondo si è esaurito già al secondo bando, quindi in pochi mesi, e «siamo rimasti contenti di quante donne con un un progetto nuovo e innovativo in mano da lanciare si siano presentate, in un periodo in cui le aziende fanno fatica a resistere alle intemperie della pandemia e della guerra».
Allarga lo sguardo e il ragionamento Donatella Palermo, produttrice cinematografica: «I bambini sognano il loro futuro. Le donne faticano culturalmente a sognare, a vedersi altro se non quello che la società le ha predisposte a fare. I genitori devono insegnare alle loro figlie a sognare, portandole a credere in loro stesse. Va detto che 25 anni eravamo 2 produttrici donne in Italia, oggi il rapporto è paritario».
In Italia bisogna superare ancora lo stereotipo culturale che vede la donna come mamma dice Elisabetta Soglio, «ma anche della donna-caregiver dei suoi genitori oltre a colei che sopporta i maggiori oneri nella gestione sua di famiglia – aggiunge Anna Ascani -. Nella scuola non raccontiamo mai adeguatamente le opportunità che esistono per le ragazze. Dall’impresa ai settori tecnologici. Dico scuola, ma è un compito anche dei media: sono loro che si occupano del racconto dell’oggi e delle prospettive del futuro delle donne. Devono cambiare il racconto e aiutare le donne a potersi vedere come ingegneri bio-tecnologiche e imprenditrici». Anche perché i dati raccontano di imprese al femminile più digitali di quelle al maschile, quindi sono le donne che guardano meglio e con più competenze al futuro: «Queste aziende stanno riformando anche il mercato del lavoro dando occasione accelerare la tradizione digitale e quella del lavoro, formando i proprio lavoratori per i nuovi lavori, senza lasciare indietro nessuno», aggiunge la sottosegretaria al Ministero dello Sviluppo Economico, che spiega come il “gap” per le donne nel mondo dell’impresa non si fermi all’accesso al mondo del lavoro, ma sia anche nel salario: «In italia e in tutta Europa il divario di genere è tangibile anche nei soldi presi per compiere il medesimo lavoro. Per una donna sono sempre meno di quelli dati ad un uomo. Ma il “gender gap” si annida anche nei colloqui quando ad una donna si chiede se ha intenzione di avere figli».
Questa rivoluzione culturale ha bisogno anche dell’arte per accelerare il processo. «Necessita dei film, perché l’arte aiuta sempre la società. La stimola a focalizzare aspetti della realtà, a ripensarci e tenerli presenti. Soprattutto quando si tratta di temi sociali. Un esempio è “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi del 2016. Un film che non è solo un documentario, ma un’opera d’arte che fa dire a chiunque la guardi “quel che succede ai migranti non dovrebbe succedere a nessun uomo e donna”», dice Concetta Pistoia, responsabile amministrativo e di produzione cinematografica. Quel film è un’opera d’arte «perché fissa le emozioni in ogni spettatore rispetto a quanto succede ai migranti. Sta iniziando a capitare anche nei film che hanno per protagoniste le donne e le storie al femminile», aggiunge e conclude Donatella Palermo.